Messaggi WhatsApp e reato di molestie: la fine di una relazione sentimentale e la configurabilità del reato – irrilevanza della funzione di “blocco”
Segnaliamo la sentenza n. 34821 della Prima Sezione (ud. 24.05.2022 dep. 20.09.2022) con la quale viene ribadita dai giudici di legittimità la configurabilità del reato di cui all’art. 660 C.P. per l’imputato responsabile di aver inviato messaggi telefonici tramite WhatsApp diretti alla persona offesa e contattando persone a lei vicine affinché facessero da tramite per convincerla a riprendere la relazione sentimentale cessata.
La fattispecie incriminatrice, invero, non ha natura abituale, sicché il reato può essere realizzato anche con una sola azione (come nel caso di una sola telefonata) che sia particolarmente sintomatica dei motivi riprovevoli ovvero della petulanza che l’hanno ispirata.
L’elemento materiale, come chiarito dalla Corte, è costituito dalla interferenza non accettata che altera fastidiosamente o in modo inopportuno, immediato o mediato, lo stato psichico di una persona e l’atto deve non soltanto risultare sgradito a chi lo riceve, ma deve essere anche ispirato da biasimevole motivo o consistere in un modo di agire pressante ed indiscreto, tale da interferire nella sfera privata di altri attraverso una condotta fastidiosamente insistente e invadente (cfr. Sez. 1, n. 6064 del 6.12.2017).
Quanto alla possibilità che il reato sia integrato mediante l’invio di sms e messaggi WhatsApp, la giurisprudenza afferma costantemente che ciò che rileva “è il carattere invasivo della comunicazione non vocale, rappresentato dalla percezione immediata da parte del destinatario dell’avvertimento acustico che indica l’arrivo del messaggio, ma anche dalla percezione immediata e diretta del suo contenuto o di parte di esso, attraverso l’anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco” (v. anche Sez. 1, n. 37974 del 18.03.2021).
Si aggiunga che è ritenuto altresì il carattere invasivo della messaggistica telematica anche laddove il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un utente sgradito, possa evitarne agevolmente la ricezione tramite la cd. funzione “blocco” (cfr. Sez. 1, n. 24670 del 7.06.2012; nonché Sez. 1, n. 37974 del 18.03.2021).
Ciò che rileva, secondo la Cassazione, è l’invasività in sé del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario e non la possibilità per quest’ultimo di interrompere l’azione disturbatrice o prevenirne la reiterazione attraverso l’esclusione del contatto o dell’utenza sgradita: il reato di cui all’art. 660 C.P. tutela infatti la tranquillità pubblica e non già la libertà di comunicazione del destinatario dell’atto molesto.
Sulla base di questi principi la Corte ha ritenuto integrato il reato da parte dell’imputato in relazione alla pluralità di condotte consistite, tra l’altro, in ripetuti messaggi Whatsapp, telefonate, appostamenti, nell’aver inserito sul suo account di WhatsApp una immagine pertinente la persona offesa, comportamenti tali da costituire un modo per introdursi, pur se collocati nella fase di rottura della relazione sentimentale tra le parti, costituivano un modo per introdursi in maniera arbitraria nella sua sfera di libertà, turbandone la serenità.