La Cassazione in tema di divieto di discriminazione e rispetto della dignità umana – il caso Lega Nord e l’uso del termine “clandestini”
Pubblichiamo un recente intervento della Suprema Corte Sezione Civile che con la sentenza n. 24686 depositata il 16 agosto 2023 ha ribadito, rigettando i ricorsi della Lega Nord, l’ambito di tutela del rispetto dei diritti umani e i limiti alla libertà di espressione nella critica politica.
La Cassazione era chiamata a pronunciarsi su due ricorsi presentati dalla “Lega Nord – Lega Lombarda” e “Lega Nord per l’indipendenza della Padania” in quanto soccombenti rispetto l’azione civile proposta da due associazioni di volontariato, ASGI e NAGA, contro la Lega Nord, sezione di Saronno, per condotta discriminatoria, per ragioni di razza e origine etnica, nei confronti di 32 richiedenti asilo, contro la cui accoglienza a Saronno la Lega aveva affisso circa settanta manifesti con il proprio simbolo, affermanti: “Saronno non vuole i clandestini”, cui seguivano dichiarazioni e comparazioni ostili in nome di una presunta “invasione”.
Di particolare interesse la valutazione sull’accertamento, compiuto dai giudici di merito, dell’esistenza di un comportamento discriminatorio.
Sul punto, la Corte compie una ricostruzione del quadro normativo di riferimento sia nazionale che sovranazionale.
Ricostruzione del quadro normativo
Pur dovendosi necessariamente prendere avvio dagli artt. 3 e 10 della Costituzione repubblicana, dai quali si traggono i principi fondamentali riguardanti la pari dignità dei cittadini e la tutela degli stranieri in senso lato, va ricordato che l’art. 14 della CEDU prevede il divieto di discriminazione, stabilendo che il godimento dei diritti e delle libertà ivi riconosciuti «deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni»; parametro, quest’ultimo, che è stato in più occasioni richiamato dalla Corte di Strasburgo come diritto alla non discriminazione.
L’elenco dei “fattori di protezione” di cui all’art. 14 cit., inoltre, ha carattere “aperto”, così come riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto di
applicare l’art. 14 anche con riferimento ad ipotesi in cui i fattori da proteggere non comparivano espressamente nella norma in parola (quali, ad esempio, l’orientamento sessuale e l’identità di genere:
Corte EDU, 16 settembre 2021, X c. Polonia, n. 20741/10, § 70).
Vanno poi ricordati gli artt. 20-23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – non a caso inseriti nel Capo III che si intitola “Uguaglianza” – e, fra questi, soprattutto l’art. 21, il quale vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio,
la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali». E la versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede all’art. 10 che nella definizione e attuazione delle sue
politiche «l’Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».
Sul piano del diritto interno, non è senza significato l’orientamento della Corte costituzionale predicativo del principio secondo il quale «esiste un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione» tra i divieti di discriminazione prescritti dal diritto dell’Unione e i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale (ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.2. del Considerato in diritto); di tal che viene ritenuto suo indefettibile compito quello «di assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie» (Corte costituzionale, sentenza n. 54 del 2022, punto 10).
Ciò premesso, la Corte esamina la legislazione interna e, precisamente, i decreti legislativi n. 286 del 1998 (artt. 43 e 44), n. 215 del 2003 (artt. 2, 4 e 5), n. 150 del 2011 (art. 28).
L’articolo 43 del decreto legislativo n. 286/1998 contiene una dettagliata definizione del comportamento discriminatorio, mentre l’articolo 44 prevede la facoltà di ricorrere al giudice ordinario per chiedere la cessazione del comportamento e la rimozione dei suoi effetti.
L’articolo 2 del decreto legislativo n. 215/2003 contempla la discriminazione diretta e quella indiretta, mentre l’articolo 4 rinvia alla normativa che disciplina i giudizi civili in materia, e l’articolo 5 riconosce a determinate associazioni ed enti, inseriti in un apposito elenco, la facoltà di agire nei casi di discriminazione collettiva.
Infine, l’articolo 28 del decreto legislativo n. 150/2011 prevede, in presenza di elementi di fatto che lascino fondatamente presumere l’esistenza di discriminazioni, la parziale inversione dell’onere della prova a carico del convenuto.
Interpretando questa normativa, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno desunto l’esistenza di un “diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima di discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A.” (cfr. SSUU ord. n. 7186 del 30 marzo 2011; SSUU ord. n. 3670 del 15 febbraio 2011; SSUU. sent. n. 7951 del 20 aprile 2016; SSUU ord. n. 3057 del 1° febbraio 2022).
La decisione della Corte
Alla luce di quanto esposto la Cassazione ha ritenuto infondati i motivi di ricorso basati sull’accertamento, da parte dei giudici di merito, di un comportamento discriminatorio.
La Corte si è soffermata in particolare sulla censura concernente il termine “clandestini”, riferito nei manifesti a persone straniere richiedenti protezione internazionale allo Stato italiano, il che comporta l’applicazione di misure di accoglienza e il rilascio di un permesso temporaneo di soggiorno ai sensi del
decreto legislativo n. 142 del 18 agosto 2015 (in particolare, artt. 1, 4 e 22), attuativo di una direttiva dell’Unione europea, nonché in osservanza del principio di diritto internazionale consuetudinario del “non respingimento”, ribadito in molteplici testi (es.: Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati, artt. 31, 32 e 33; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 18, etc.).
Di qui la correttezza di giudizio della Corte di merito laddove ha escluso la legittimità dell’uso del termine “clandestini” nel caso di specie.
Nel ricordare altresì il divieto di discriminazioni non solo dirette ma anche indirette, così come previsto dal citato articolo 2 del decreto legislativo n. 215 del 2003, la Corte ha richiamato la sua recente ordinanza n. 14836 del 26 maggio 2023, in cui ha chiarito che “la molestia per ragioni di razza o di etnia … è integrata da qualsiasi comportamento che sia lesivo della dignità della persona”. “Se è vero – aggiunge la Corte – che uno dei valori fondanti della Costituzione repubblicana è quello della pari dignità delle persone, è anche vero che il termine di cui si discute può facilmente prestarsi (e indurre), specie se inserito in un contesto verbale come quel lo del manifesto in questione, ad abusi i quali, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo, si risolvono appunto in un comportamento discriminatorio”.
In tal senso non può essere utile il richiamo alla libertà di espressione e di critica politica, poiché anche quest’ultima deve mantenersi entro confini e non tradursi in comportamenti discriminatori, come più volte ribadito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.
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