Infortuni sul lavoro e responsabilità 231/2001: occorre distinguere colpa di organizzazione e colpevolezza della persona fisica

Una recente pronuncia della Cassazione (Quarta Sezione n. 570/2023 – ud. 4.10.2022 dep. 11.01.2023) , in tema di responsabilità degli enti ex d.lgs 231/2001 e infortuni sul lavoro, è tornata a ribadire la necessità di non confondere i profili di responsabilità dell’ente con quelli di colpevolezza della persona fisica responsabile del reato.

Il processo di merito

Tizio, amministratore unico della società Alfa, era stato chiamato, unitamente a Caio, amministratore unico della società Beta, a rispondere del reato di cui agli artt. 41, 589, commi 1 e 2 C.P., in relazione alla violazione delle norme per la sicurezza dei lavoratori, perché, con condotte indipendenti e causalmente rilevanti nella produzione dell’evento, operando, mediante le rispettive imprese, presso il cantiere temporaneo per la realizzazione della Tangenziale Est Esterna di Milano (TEEM), cagionavano la morte di Mevio, dipendente di Beta, per un “complesso traumatismo policontusivo produttivo di lesioni cranio encefaliche, oltre che di lesioni scheletriche e viscerali”, per colpa generica e per inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Nel novembre 2015, mentre si trovava sul ponteggio lato nord della galleria, in fase di smontaggio, Mevio veniva colpito da un’asse di contenimento della gettata di cemento con la quale veniva realizzata la veletta e perdeva l’equilibrio. Essendo il ponteggio privo di dispositivi di sicurezza (sponde laterali) per la prevenzione del rischio di cadute dall’alto, precipitava dallo stesso da un’altezza di circa 10 metri, riportando gravissime lesioni che ne determinavano la morte dopo circa un’ora, riscontrata sul posto dei sanitari intervenuti.

La società Alfa è stata ritenuta dai Giudici di merito responsabile dell’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, per aver tratto vantaggio dalla condotta del reato attribuito all’amministratore unico, Tizio: vantaggio consistito nel risparmio derivante dall’impiego, presso il cantiere anzidetto, di lavoratori solo formalmente dipendenti di altra società Beta, in realtà sottoposti al potere direttivo della società Alfa; nonché nel risparmio derivante dalla mancata messa a disposizione dei lavoratori medesimi di idonei mezzi di protezione individuale, con specifico riferimento ai sistemi di protezione contro le cadute dall’alto, all’omessa formazione specifica ai lavoratori medesimi in materia di montaggio/ smontaggio dei ponteggi e all’assenza di un preposto a tali lavori effettivamente nominato e quindi retribuito dalla società. Condotte da cui derivava l’infortunio.

Il ricorso della difesa

La società Alfa ha impugnato la sentenza della Corte di Appello di Milano lamentando: 1) violazione di legge, nonché manifesta illogicità e contraddittorietà estrinseca della motivazione nella parte in cui ha ritenuto sussistente un vantaggio in capo ad Alfa; erronea applicazione dell’art. 5 d. Igs 231/2001, in ordine alla sussistenza del vantaggio in capo a questa società; 2) Violazione di legge per erronea disapplicazione degli artt. 6 e 7, comma 2, d.lgs. 231/2001, in ordine alla valutazione di idoneità in concreto ed ex ante del modello organizzativo adottato dalla società Alfa, prima della verificazione
dell’infortunio; manifesta illogicità, mancanza (mera apparenza) e contraddittorietà intrinseca ed estrinseca della motivazione nella parte in cui ha ritenuto inidoneo il modello organizzativo ai fini dell’esclusione della responsabilità dell’ente; 3) Violazione di legge, nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione ed erronea disapplicazione dell’art. 11 d.lgs. 231/2001, nella parte in
cui ha determinato la pena base della sanzione pecuniaria.

La decisione della Corte e i principi di diritto

La Cassazione ha accolto i rilievi sul vizio motivazionale annullando con rinvio la sentenza.

I Giudici di legittimità hanno ribadito che la struttura dell’illecito addebitato all’ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale intercorrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione
organica, escludendo che possa essere attribuito all’ente un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione, ma per fini estranei agli scopi di questo.

Di conseguenza l’ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui, ma ciò non pone al riparo da possibili profili di responsabilità meramente oggettiva, sicché è necessario che sussista la c.d. ‘colpa di organizzazione‘ dell’ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo.

In tal senso, grava sull’accusa l’onere di dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della società e che abbia agito nell’interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l’azione dell’uno all’interesse dell’altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo.

Su queste premesse, nel caso di specie la Corte ha rilevato preliminarmente la carenza nella struttura dell’illecito delineata nel capo di imputazione, il quale si limita ad addebitare all’ente un mero ‘vantaggio’ (derivante nel risparmio di spesa come più sopra precisato), senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la “colpa di organizzazione” da cui sarebbe derivato il reato presupposto, che è cosa diversa dalla colpa eventualmente riconducibile al soggetto apicale cui è ascritto il reato.

In particolare, ad avviso dei giudici di legittimità, <<la motivazione della sentenza impugnata offre un percorso argomentativo carente in punto di responsabilità dell’ente, per certi versi sovrapponendo e confondendo i profili di responsabilità da reato dell’amministratore/datore di lavoro dai profili di responsabilità da illecito amministrativo della società. Ciò appare evidente nella parte in cui la sentenza impugnata addebita alla società il fatto di non aver svolto alcuna adeguata valutazione sui fornitori, nonostante fosse prevista nel modello, e di non avere predisposto a norma il ponteggio nonostante la sua corretta edificazione fosse prevista nel PIMUS, documento che afferma essere stato sul punto assolutamente disatteso: profili colposi ascrivibili all’amministratore della società, quale datore di lavoro tenuto al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all’ente in quanto tale>>.

In altri termini, Ia sentenza di merito avrebbe fondato la responsabilità amministrativa della società sulla “genericità ed inadeguatezza del modello organizzativo” senza fornire la positiva dimostrazione della sussistenza di una “colpa di organizzazione” dell’ente.

Ricorda infatti la Corte che <<Deve, invero, ricordarsi che la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato>>.

In tale prospettiva, <<l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica, quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo>>.

Ne consegue, conclude il Collegio, <<che, nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/01>>.

Solo la ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto idonee a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui).