Estorsione sul posto di lavoro – Per il datore verso il dipendente solo in presenza di un rapporto contrattuale in essere tra le parti.

La sentenza n. 7128/2024, emessa il 16.02.2024 dalla Seconda sezione penale della Suprema Corte stabilisce i criteri specifici necessari per configurare il reato di estorsione ai danni dei dipendenti da parte di un datore di lavoro che sottopone i propri impiegati a condizioni economicamente opprimenti, minacciando ritorsioni qualora non vengano accettate.

Il fatto

Nella fattispecie, i magistrati di entrambi i gradi di giudizio di merito avevano riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato, processato per aver commesso più reati di estorsione ai danni di diverse vittime, attraverso azioni che avrebbero violato la loro libertà di autodeterminazione.

In particolare il datore di lavoro avrebbe prospettato ad alcuni aspiranti dipendenti, al momento dell’assunzione, prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, l’alternativa tra la rinunzia, anche parziale, alla retribuzione formalmente concordata o ad altre prestazioni e la perdita dell’opportunità di lavoro.

Il provvedimento di condanna si ricollegava al principio giurisprudenziale secondo cui configura il reato di estorsione il comportamento del datore di lavoro che, sfruttando l’aspettativa di un’assunzione, costringe il potenziale dipendente ad accettare condizioni di lavoro illecite (cfr. Sez. 2, n. 8477 del 20.02.2019.

La decisione della Corte

La Corte ritenendo necessario approfondire la compatibilità di tale interpretazione con i principi di specificità e di determinatezza del reato, ha accolto il ricorso annullando con rinvio la sentenza contestata e delineando il discrimen tra comportamenti estorsivi e azioni sprovviste di rilevanza penale.

Secondo il Collegio i casi giuridici legati al crimine di estorsione attraverso il contratto di lavoro subordinato presentano una varietà di manifestazioni, che vanno dalla fase di costituzione del rapporto alle fasi successive di esecuzione contrattuale. Durante queste fasi, la parte economicamente più forte può esercitare pressioni attraverso diverse clausole contrattuali o sfruttando le condizioni economico-sociali per limitare la libertà di scelta del lavoratore più debole.

Il filone giurisprudenziale mostra coerenza nel ribadire che la condotta coercitiva del datore di lavoro, che sfrutta una posizione di forza nel mercato del lavoro, integra il reato di estorsione.

Tuttavia, l’analisi delle motivazioni dietro le singole sentenze rivela l’applicazione di questo principio a situazioni molto diverse.

La minaccia estorsiva si caratterizza per la sua capacità di indurre paura e costringere la volontà altrui, tuttavia, nel caso di minacce passive, è fondamentale che l’agente abbia l’obbligo giuridico di impedire il danno minacciato.

In particolare, la situazione si complica quando il datore di lavoro, nella fase di assunzione, pone il potenziale impiegato di fronte alla scelta tra accettare condizioni contrattuali svantaggiose o perdere l’opportunità di lavoro.

Con la sentenza in commento la Cassazione afferma che questa scelta non soddisfa il criterio della minaccia, poiché prima della conclusione del contratto non sussiste un diritto a determinate condizioni di assunzione: il discrimine che segna il confine tra ipotesi di opportunistica ricerca di forza lavoro tra categorie di soggetti in attesa di occupazione e condotte riconducibili al paradigma del delitto di estorsione è rappresentato dall’esistenza di un rapporto di lavoro già in atto, pur se solo di fatto o non conforme ai tipi legali, rispetto al quale integra il fatto tipico del delitto di cui all’art. 629 cod. pen. la pretesa di ottenere vantaggi patrimoniali da parte del datore di lavoro, attraverso la modifica in senso peggiorativo delle previsioni dell’accordo concluso tra le parti, destinate a regolare gli aspetti aventi rilevanza patrimoniale, prospettando l’interruzione del rapporto (attraverso il licenziamento del dipendente o l’imposizione delle dimissioni)“.

Pertanto, quando il datore di lavoro minaccia di modificare unilateralmente le condizioni di un contratto di lavoro già in essere, al fine di ottenere vantaggi illeciti, si soddisfano i requisiti del reato di estorsione.

Il Collegio ha infatti specificato che “Il vantaggio perseguito (costituente ingiusto profitto)  può  essere rappresentato non solo da modificazioni delle pattuizioni contrattuali che riducano o eliminino diritti del lavoratore (ciò che costituisce il danno subito dalla persona offesa), consentendo al datore di lavoro risparmi di spesa o minori esborsi, ma anche dall’imposizione di formule contrattuali che, simulando la regolamentazione del rapporto in termini difformi da quelli reali e riconoscendo al dipendente livelli retributivi e indennità in realtà non corrisposte, comporta per il datore di lavoro il vantaggio di impiegare dipendenti con condizioni contrattuali apparentemente rispettose delle norme inderogabili a tutela dei diritti dei lavoratori, mentre costoro sono costretti a subire conseguenze patrimoniali negative (ad esempio, risultando percettori di redditi in misura superiore a quella reale, con i connessi obblighi tributari: per l’ipotesi della sottoscrizione di buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate, Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo,  cit.).

Occorre quindi verificare, per ciascun lavoratore coinvolto, se le minacce erano volte all’instaurazione del rapporto di lavoro a condizioni specifiche o, in caso di un rapporto già esistente, se miravano a costringere i lavoratori a rinunciare a diritti acquisiti.