Criptovalute: la definizione della Cassazione – Obblighi e rischi di interpretazione in tema di intermediazione finanziaria.
Con la sentenza n. 44378/2022, la Seconda Sezione Penale (ud. 26.10.2022 – dep. 22.11.2022) torna sulla qualificazione delle criptovalute quali strumenti di investimento da considerarsi sottoposti alle norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 e seguenti del TUF).
Si tratta di un provvedimento interessante che ripropone alcune definizioni utili a comprendere l’evoluzione giurisprudenziale nello specifico settore.
Il fatto e le ragioni del ricorso
Il caso in esame aveva ad oggetto l’appello del PM sull’ordinanza del Tribunale della Libertà di Brescia che confermava il rigetto del GIP sulla richiesta di sequestro preventivo del wallet di 30 bitcoin asseritamente oggetto del reato di cui all’art. 648 ter 1 C.P. (autoriciclaggio) in ragione del difetto del fumus di sussistenza del delitto presupposto identificato, nell’incolpazione provvisoria, nell’esercizio abusivo dell’attività bancaria e di intermediazione finanziaria.
Il ricorso della Procura, infatti, evidenziava come doveva ritenersi sussistente la fattispecie di cui all’art. 166 TUF in quanto la condotta addebitata all’imputato integrava esplicitamente una offerta di investimento, come tale pubblicizzata.
La società promotrice dell’investimento (LWF Ltd), “esterovestita” e formalmente intestata ad una testa di legno (o comunque a soggetto differente dall’amministratore di fatto), aveva descritto nel White Paper ai potenziali investitori l’avvio di una Initial Coin Offering (ICO) per un progetto relativo alla creazione di nuove start-up ed iniziative da avviare nel mondo virtuale, indicando gli aspetti tecnici, finanziari ed economici dell’operazione.
In particolare, la raccolta fondi aveva avuto come scopo la creazione di una piattaforma decentralizzata di servizi logistici, e a chi aveva contribuito erano stati corrisposti in cambio LWF Coin, che costituivano titoli per l’utilizzo dei servizi della piattaforma.
Nessuno dei soggetti che hanno conferito il capitale aveva sporto denuncia.
La decisione della Corte
Nell’accogliere il ricorso la Corte di Cassazione rileva come nel nostro ordinamento le caratteristiche delle criptovalute, invero, vengano disciplinate “in negativo” secondo la definizione (mutuata in parte dalle direttive europee Dir. 2018/843/UE e considerando 10 Dir. Antiriciclaggio) che ne dà il Legislatore all’art. 1 del D.Lvo 231/2007 come modificato dal D.Lvo 125/2019, alla lett. qq): si intende per moneta virtuale “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da una autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente“.
La moneta virtuale viene scambiata sulla piattaforma tecnologica exchange la cui funzione, secondo i giudici di legittimità, “è quella di poter permettere di effettuare l’acquisto e la vendita delle criptovalute e di realizzare un profitto“.
Il Legislatore ha inserito i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale tra i cd. soggetti obbligati (art. 3 comm 5 lett. i D.Lvo 231/2007) all’iscrizione in apposito registro tenuto presso l’OAM (Organismo competente in via esclusiva ed autonoma per la gestione degli Elenchi degli Agenti in attività finanziaria e dei Mediatori creditizi) e alla comunicazione al Ministero Economia e Finanze.
Sono inseriti nella categoria “altri operatori non finanziari” gli exchanger (cambiavalute di bitcoin et similia, definiti come ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche on line, servizi funzionali all’utilizzo, lo scambio, la conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da, ovvero in, valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore – art. 1 comma 2 lett. ff D.Lvo 231/2007) e il wallet provider (gestori di portafogli virtuali che offrono servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali art. 1 comma 2 lett. ff bis D.Lvo 231/2007).
Sull’uso della moneta virtuale come mezzo di scambio o strumento la medesima Sezione della Corte aveva già precisato che ove la vendita di bitcoin venga reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, si ha una attività soggetta agli adempimenti previsti dagli artt. 91 e seguenti del TUF, la cui omissione integra l’ipotesi di reato p. e p. all’art. 166 comma 1 lett. c) TUF. (cfr. Cass. Sez. 2, 17-25.09.2020, n. 26807).
Tuttavia per definire “strumenti finanziari” le valute virtuali, i giudici di legittimità hanno richiamato il contenuto di una pronuncia di merito sul tema specifico (Tribunale di Verona 24.01.2017) secondo la quale i caratteri distintivi dell’investimento di tipo finanziario sono: a) un impiego di capitali, riconducibile generalmente al danaro o, più in generale, a un capitale proprio che può corrispondere anche a una valuta virtuale; b) una aspettativa di rendimento; c) un rischio proprio dell’attività prescelta, direttamente correlato all’impiego di capitali.
Nel caso in esame, sostiene la Corte, i caratteri sopra evidenziati ricorrerebbero in quanto “i soggetti interessati all’investimento per ottenerlo: a) hanno erogato capitali (sotto forma di bitcoin); b) con l’aspettativa di ottenere un rendimento, costituito dalla corresponsione di altre monete virtuali che avrebbero permesso la partecipazione alla piattaforma, dal valore variabile a seconda del momento dell’acquisto e che avrebbe acquistato maggior valore se il progetto relativo alla piattaforma avesse avuto successo; c) hanno assunto su di sé un rischio connesso al capitale investito”.
Ne consegue che la valuta virtuale, secondo il Collegio, deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere disciplinata con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. T.U.F.), le quali garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell’investimento; pertanto, “chi eroga detti servizi è tenuto ad un innalzamento degli obblighi informativi verso il consumatore, al fine di consentire allo stesso di conoscere i contenuti dell’operazione economico-contrattuale e di maturare una scelta negoziale meditata“.
Dubbi e problematiche
La conclusione cui perviene la Corte è chiara, ma, come rilevato da alcuni commentatori, può generare alcuni fraintendimenti [1].
Occorre infatti chiarire che il caso portato all’attenzione della Cassazione non attiene, difatti, alla qualificazione di bitcoin, ma di un token chiamato LWF Coin, che secondo il Procuratore di Brescia deve essere sostanzialmente considerato come un “security token“, ossia come un prodotto finanziario, e non come un mero “utility token“, ossia come un titolo digitale che legittima il possessore ad ottenere beni o servizi.
Per questo motivo i principi espressi dalla Corte, in parte condivisibili nel voler allargare le garanzie per gli investitori, non possono applicarsi, a nostro avviso, a bitcoin e altre valute virtuali laddove utilizzate esattamente come mezzo di scambio o comunque di pagamento per l’acquisto di beni come nel caso in esame l’acquisto del token LWF Coin definito quale prodotto finanziario.
Ben vero spesso i termini strumenti finanziari e, appunto, i prodotti finanziari sono utilizzati come sinonimi.
I primi, per espressa scelta normativa (articolo 1 comma 2 TUF), sono un numero chiuso con la conseguenza che non è possibile farvi rientrare le criptovalute (ed i token in generale) in tale categoria.
I prodotti finanziari hanno invece una definizione volutamente più ampia, in quanto ricomprendono, oltre agli strumenti finanziari, anche ogni altra forma di investimento di natura finanziaria.
Pertanto, solo nel caso in cui ricorrano i tre requisiti richiamati nella sentenza in esame (e individuati dalla CONSOB, ossia l’impiego di capitali, l’aspettativa di rendimento e il rischio direttamente collegato all’impiego di capitali) i titoli offerti (ossia, nel caso specifico, i LWF Coin), possono considerarsi prodotti finanziari soggetti alla disciplina del TUF sull’offerta al pubblico.
In buona sostanza, il principio espresso dalla Suprema Corte non può essere automaticamente esteso a tutte le criptovalute e neppure più genericamente a tutte le cripto-attività (token, NFT, etc.), essendo necessario valutare caso per caso la sussistenza dei tre requisiti sopra enunciati anche attraverso la lettura del White Paper che descrive le caratteristiche delle criptoattività offerte.
Le criptovalute vere e proprie, quali i bitcoin, non sono infatti concepite come prodotti finanziari, ma potrebbero diventarlo qualora vengano offerte per finalità di investimento e ricorrano i tre requisiti sopra richiamati.
Come fatto rilevare, inoltre, nella definizione di “servizi ed attività di investimento” di cui all’art. 1 comma 5 del TUF (richiamato dalla stessa sentenza) è espressamente previsto che tali servizi ed attività debbano avere ad oggetto strumenti finanziari (e non prodotti finanziari).
Sebbene tale aspetto non sia stato approfondito a livello giurisprudenziale, ne deriva che se le criptovalute non si qualificano quali strumenti finanziari, i servizi aventi ad oggetto le medesime non rientrano nella definizione di attività di investimento, anche ai fini degli obblighi di cui all’art. 94 e ss. TUF, mentre non vi è dubbio che ove esse rientrino nella definizione di prodotti finanziari (come è stato accertato nella sentenza in esame e nelle altre sopra citate), la relativa offerta è soggetta agli obblighi di prospetto ai sensi dell’art. 94 bis TUF.
[1. La natura delle criptovalute. Gli equivoci delle più recenti pronunce giurisprudenziali]