Attività sportiva ed eventi lesivi – Rischio consentito e limiti della rilevanza penale della colpa sportiva
La Cassazione (sent. Sez. 4, 19.05.2023, n. 21452) interviene sulla tematica della individuazione dei confini dell’area del penalmente rilevante in rapporto alla condotta lesiva dell’altrui integrità fisica nell’ambito delle competizioni sportive.
La vicenda processuale riguardava la responsabilità colposa riconosciuta nei primi due gradi di giudizio nei confronti dell’imputata, per aver procurato gravi lesioni/oltre all’indebolimento permanente della vista alla persona offesa, durante una partita di rugby in occasione della coppa italiana femminile.
Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, durante la partita tra le due squadre, nella fase successiva ad un placcaggio da parte della persona offesa, entrambe le giocatrici erano cadute a terra e l’imputata, che si trovava sopra, aveva alzato il braccio destro a squadra e aveva colpito con il gomito al volto l’avversaria, procurandole la frattura della parte inferiore mediale dell’orbita destra, con incarceramento del muscolo oculare, causandole lesioni che necessitavano di ricovero ed un complesso intervento chirurgico.
Ai fini del riconoscimento della responsabilità per il reato p. e p. dall’art. 590 C.P. veniva ritenuta rilevante, secondo il criterio del cd. rischio consentito, la circostanza che il fatto lesivo era stato posto in essere, subito dopo un placcaggio, nel tentativo dell’imputata di riprendere il gioco e di rialzarsi da terra: la persona offesa veniva colpita con una gomitata in violazione della regola specifica sportiva e comunque esercitando una forza sicuramente sproporzionata ed esorbitante a quella strettamente necessaria per rimettersi in piedi.
Superamento del criterio del cd. rischio consentito
La sentenza in commento è di particolare interesse laddove la Cassazione abbandona l’orizzonte del cd. “rischio consentito” e dell’agente modello (criterio seguito dai giudici di merito e da numerose pronunce di legittimità: cfr. da ultimo Sez. 4, 15.03.2022, n. 8609).
Il rischio consentito è quello accettato dall’atleta in relazione al rispetto delle regole tecniche per la pratica sportiva di riferimento, per cui la violazione esorbitante di tali regole riconduce la condotta antisportiva nell’area del penalmente rilevante, derivandone una lesione non previamente accettata dall’atleta.
Tuttavia secondo la Cassazione tale criterio scriminante sarebbe foriero di eccessive incertezze nell’applicazione giudiziale.
L’attività sportiva, così come altre attività umane potenzialmente pericolose, ma consentite per evidenti ragioni di utilità sociale (si pensi all’attività medico-chirurgica), non può sottrarsi all’indagine di responsabilità colposa (o dolosa) in caso di eventi lesivi della vita o dell’integrità fisica delle persone, accaduti nel corso o in occasione del suo esercizio.
In tale prospettiva, non servirebbe ragionare in termini di scriminante, atteso che l’attività sportiva costituisce di per sé una attività lecita, rispetto alla quale i partecipanti accettano di correre determinati rischi, sempre che la loro integrità fisica non sia da altri deliberatamente lesa o danneggiata colposamente a seguito della violazione di predeterminate regole cautelari.
La colpa sportiva
La Cassazione, con la pronuncia di annullamento, ribadisce che la “verifica della colpa sportiva non può prescindere dagli ordinari criteri stabiliti dall’art. 43 C.P., in particolare riscontrando l’eventuale violazione della regola cautelare, generica o specifica, non corrispondente alla regola tecnico-sportiva in astratto applicabile“.
Fondamentale, secondo i giudici di legittimità, è la regola generale che impone agli atleti di improntare il proprio comportamento ai doveri di lealtà e correttezza sportiva nonché di rispetto dell’avversario, che va però coordinata ai principi della colpevolezza colposa.
Nell’accertamento della sussistenza della colpa non ha quindi rilievo l’entità del danno procurato, poiché oggetto della valutazione non sono le conseguenze dannose in quanto tali, bensì le specifiche e obiettive modalità della condotta dell’atleta, avuto riguardo alle caratteristiche dell’azione nell’ambito del contesto agonistico di riferimento.
Pertanto, nella valutazione della colpa sportiva assume centralità l’analisi della situazione di fatto in rapporto allo sviluppo dinamico dell’azione lesiva.
È evidente, infatti, che per ciascun contesto, i singoli atleti faranno affidamento su atti degli avversari aventi caratteristiche ed intensità diverse – maggiore per i professionisti rispetto ai dilettanti, minore per gli allenamenti rispetto alle gare – cui potrà conseguire l’operatività di una diversa regola pertinente alla situazione sportiva acclarata.
Al di là della specifica attività agonistica – nella vicenda il rugby professionistico, sport molto “fisico” e da impatto – resta fondamentale la regola generale che impone agli atleti di improntare il proprio comportamento ai doveri di lealtà e correttezza sportiva, nonché di rispetto dell’avversario, che vanno coordinati con i principi della colpevolezza.
La decisione della Corte
Nel caso specifico, secondo la Suprema Corte, il giudizio di responsabilità a carico dell’imputata ha preso le mosse erroneamente da considerazioni generali che potrebbero valere per qualsiasi contesto agonistico (secondo il criterio del cd. rischio consentito), ma che non affrontano il nodo centrale della questione, che è quello di stabilire se nel caso concreto vi sia stato un comportamento colposo giuridicamente rilevante, in quanto commesso in violazione di una predeterminata regola cautelare, che nel caso non è stata in alcun modo evocata né individuata dal Giudice del merito.
Anzi nella sentenza di primo grado che ha derubricato il reato in lesioni colpose, si legge che il Giudice sportivo, dando atto che nemmeno dal video è individuabile l’esatto svolgimento dei fatti essendo visibile solo un movimento scomposto, ha scritto che “dalla memoria del Presidente della società si dà atto che l’imputata, essendo trattenuta a terra dalla persona offesa, si divincolava e nell’alzarsi colpiva accidentalmente la giocatrice avversaria“.