Caso Almasri: l’ordinanza della Corte di Appello di Roma – Alcune perplessità

Considerato il dibattito in corso pubblichiamo l’ordinanza della Corte di Appello di Roma con la quale è stata rigettata la domanda di estradizione della Corte Penale Internazionale nei confronti di Najeem Osema Almasri per crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Dopo il caso Sala-Abedini, un nuovo episodio di (mancat) cooperazione giudiziaria per l’estradizione di un individuo scuote l’opinione pubblica italiana. Questa volta, la vicenda coinvolge le relazioni giuridiche con la Corte penale internazionale e riguarda il generale Najeem Osema Almasri Habish, capo della polizia giudiziaria libica.

La sequenza degli atti

Il 18 gennaio scorso, la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, relativi a eventi avvenuti nella prigione di Mitiga dal 15 febbraio 2015 in poi. Almasri è accusato di crimini di guerra come oltraggio alla dignità personale, trattamento crudele, tortura, stupro e violenza sessuale, e omicidio, in base agli articoli dello Statuto della CPI. È inoltre imputato di crimini contro l’umanità, tra cui omicidio, detenzione illegittima, tortura, stupro e violenza sessuale, e persecuzione, sempre secondo gli articoli dello Statuto.

In seguito all’emissione del mandato di arresto e alla comunicazione a sei paesi coinvolti, tra cui l’Italia, su richiesta della CPI, l’Interpol ha emesso una red notice, avvisando tutte le forze dell’ordine delle giurisdizioni interessate. Arrestato il 19 gennaio a Torino dagli agenti della Digos mentre si trovava lì per motivi personali (pare avesse assistito alla partita tra Juventus e Milan), Almasri è stato rilasciato il 21 gennaio per ordine della Corte d’Appello di Roma. Successivamente, è stato immediatamente trasferito in Libia su un aereo militare italiano.

Il caso ha inevitabilmente scatenato vivaci polemiche sia politiche che diplomatiche, poiché con tale decisione l’Italia non rispetta l’obbligo di cooperazione assunto con la ratifica dello Statuto della Corte penale internazionale.

È importante sottolineare che l’articolo 86 dello Statuto impone a tutti gli Stati firmatari di collaborare pienamente con la Corte nelle indagini e nella persecuzione dei crimini sotto la sua giurisdizione. Inoltre, la decisione di non consegnare Almasri, ma di espellerlo dal territorio nazionale rimandandolo in Libia, mette l’Italia in una posizione critica anche nei confronti delle Nazioni Unite. Occorre ricordare che l’indagine della Corte in Libia è stata avviata su richiesta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che ha segnalato la situazione con la risoluzione del 26 febbraio 2011, n. 1970, ai sensi dell’articolo 13(b) dello Statuto. Poiché la Libia non ha ratificato lo Statuto della Corte, la giurisdizione della CPI in questo caso si basa sulla suddetta risoluzione, che ha portato all’attenzione della Procura della Corte i crimini commessi nel paese, in particolare quelli del 2011, coincidenti con la caduta del colonnello Muammar Gheddafi e gli attacchi violenti e sistematici contro la popolazione civile.

L’obbligo di cooperare con la Corte è sancito, innanzitutto, dallo Statuto di Roma, come stabilito nel Capitolo IV (artt. 86 e seguenti), e, in secondo luogo, dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite. L’indagine sulla situazione in Libia, avviata nel 2011, ha visto dal 2017 un ampliamento con l’inclusione di un’indagine specifica sui gravi crimini contro migranti e rifugiati, vittime di torture, violenze e schiavitù nei centri di detenzione libici. Tra questi, il centro di Mitiga, nei pressi di Tripoli, è tristemente noto per i trattamenti disumani inflitti ai detenuti, tra cui migranti e rifugiati di diversi paesi africani, per ragioni legate a religione, ideologia o politica, in un contesto di attacchi sistematici contro i civili.

La decisione della Corte

Al centro della complessa vicenda emerge il provvedimento di scarcerazione deciso dalla Corte d’appello di Roma. L’ordinanza si fonda sulla premessa che la legge n. 237 del 2012, regolante i rapporti di cooperazione tra Italia e Corte penale internazionale, preveda procedure diverse da quelle seguite nel caso in esame. I giudici italiani hanno sostenuto che tale legge stabilisca che solo il Ministro della giustizia possa avviare iniziative relative all’arresto di persone soggette a un mandato di arresto della CPI, escludendo l’azione autonoma della polizia.

Nel caso in questione, l’arresto di Almasri, avvenuto su iniziativa autonoma delle autorità di polizia a seguito della red notice di Interpol, è stato giudicato irregolare. I giudici hanno evidenziato che, sebbene l’arresto possa avvenire tramite l’art. 716 C.P.P., come nel caso Abedini, questa disposizione generale non è applicabile in questa circostanza. L’art. 11 della legge 237/2012 è considerato esaustivo e non consentirebbe deroghe o integrazioni tramite il codice di procedura penale o le normali procedure di estradizione.

Secondo la Corte d’Appello di Roma, richiamare la normativa generale sarebbe in conflitto con il principio di legalità e tassatività sancito dall’articolo 13 della Costituzione, che deve essere rispettato anche nei procedimenti di estradizione.

Alcune perplessità sulla soluzione giuridica

Come autorevolmente sostenuto in diversi contributi scientifici, gli argomenti della Corte, sebbene abbiano una certa logica a livello letterale, possono essere oggetto di critiche.

È importante evidenziare come la legge che regola la cooperazione tra Italia e Corte penale internazionale sia stata percepita come inadeguata fin dall’inizio, non essendo allineata con le esigenze attuali. In un contesto di cooperazioni rafforzate e riconoscimento reciproco, caratteristiche dello sviluppo della cooperazione giudiziaria nel Consiglio d’Europa e nell’Unione europea, il legislatore ha optato per un approccio alla cooperazione con la CPI più tradizionale, quasi ottocentesco. Il passaggio obbligato attraverso il Ministro è più frequente rispetto a quanto previsto dal codice di procedura penale per i rapporti con ordinamenti con cui l’Italia non ha accordi specifici, dove il rapporto di fiducia è presunto meno significativo.

Questa scelta appare ancora più paradossale se si considera che i reati sotto la giurisdizione della CPI sono sempre oggetto di riconoscimento reciproco nelle fonti dell’Unione europea, frutto della stretta collaborazione tra quest’ultima e la CPI. Se, ad esempio, Almasri fosse stato soggetto a un mandato di arresto tedesco o francese, la procedura di consegna, in base al mandato di arresto europeo, sarebbe stata rapida e diretta tra le autorità giudiziarie, senza l’intervento del Ministro, se non per facilitare lo scambio di informazioni, se necessario. Un apparente paradosso.

Detto ciò, è opportuno valutare se, considerando la normativa attuale, fosse possibile prendere una decisione diversa. Il ragionamento della Corte d’appello si basa principalmente sulla presunta esaustività della legge 237 del 2012, soprattutto riguardo alle iniziative motu proprio della polizia. Secondo questa normativa, considerata completa, non ci sarebbe spazio per azioni della polizia senza il controllo preventivo del Ministro della giustizia.

Tuttavia, questo passaggio cruciale, che è alla base della decisione di scarcerazione immediata, appare poco convincente. Con questo approccio, la Corte d’appello di Roma esclude infatti ogni possibilità di arresto on the spot da parte della polizia, proprio nei confronti dei sospettati di reati più gravi, ossia quelli soggetti a un mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale.

La legge 237/2012 effettivamente non affronta direttamente questo scenario. L’articolo 11 si concentra sull’applicazione ordinaria delle misure cautelari, escludendo i casi di urgenza e basandosi sull’iniziativa del Procuratore generale.

Anche l’articolo 14, che tratta l’applicazione provvisoria delle misure cautelari quando la richiesta di consegna non è ancora arrivata, non considera l’ipotesi di un intervento autonomo della polizia. Da questa assenza si potrebbe dedurre, come ha fatto la Corte d’appello, che il legislatore non ha voluto dare alla polizia il potere di arrestare nei casi di urgenza un ricercato della Corte Penale Internazionale.

Tuttavia, esiste un’interpretazione alternativa: l’articolo 3, comma 2, della stessa legge. Questa disposizione colma eventuali lacune, rinviando al codice di procedura penale per tutto ciò che non è previsto. Pertanto, il rinvio all’articolo 716 del c.p.p. in materia di estradizione è non solo possibile ma anche necessario, poiché la legge 237/2012 si inquadra sistematicamente in questa disciplina, come riconosciuto dai giudici nell’ordinanza in questione.

Argomentazioni a supporto si rilevano anche sul piano sistematico di coerenza del sistema: impedire alla polizia di agire autonomamente in questi casi porterebbe a risultati paradossali. Ci troveremmo di fronte a un’anomalia, considerando che, in generale, l’intervento rapido delle forze dell’ordine è cruciale in contesti simili.

Parliamo di responsabilità per crimini gravissimi, come i crimini di guerra o contro l’umanità, disciplinati dallo Statuto di Roma e spesso legati a soggetti vicini agli apparati statali. In tali situazioni, la probabilità che il ricercato fugga è elevata, specialmente quando si trova di passaggio in un determinato Paese, o che vengano utilizzati mezzi, anche politici, per evitare l’arresto e la consegna alla Corte dell’Aja di individui ricercati.

È evidente, quindi, che l’interpretazione alla base dell’ordinanza in discussione avrebbe – e ha avuto – conseguenze gravissime nella pratica. Significherebbe, infatti, che le persone oggetto di un mandato di cattura della CPI che transitano nel nostro Paese difficilmente potrebbero essere fermate, poiché la necessaria consultazione con il Ministro rallenterebbe l’intervento, facilitando la fuga dell’interessato.

Inoltre, affidare al Ministro della Giustizia un ruolo cruciale in questa procedura sembra incoerente con l’impostazione della legge 237 del 2012, dove il suo intervento nella cooperazione con la CPI è di supporto, non decisionale.

Ed infatti, diversamente dall’estradizione ordinaria dove il governo, tramite il Ministro, esercita un potere discrezionale politico, nella cooperazione con la Corte Penale Internazionale, il Ministro ha solo un ruolo esecutivo. Secondo la legge 237 del 2012, il Ministro “provvede” alla consegna (art. 13 comma 7) dopo il completamento positivo della procedura giudiziaria, mentre nell’estradizione ordinaria ha la facoltà di “decidere nel merito” (art. 708 comma 1 c.p.p.).

In pratica, l’interpretazione della Corte d’Appello di Roma finirebbe per attribuire un ruolo determinante – quasi preclusivo – al rappresentante dell’esecutivo in un contesto di cooperazione dove non ha potere decisionale sostanziale. Questo in un sistema dove l’Italia, come membro della Corte e al pari degli altri Paesi aderenti allo Statuto di Roma, è obbligata a cooperare pienamente.

Alcune perplessità sulla (non) soluzione politica

Detto ciò, anche accettando l’ipotesi che l’iniziale arresto fosse stato “irrituale” e quindi non valido, rimane un ulteriore aspetto molto problematico della vicenda.

Non è chiaro perché il Ministro non abbia potuto risolvere il suo mancato coinvolgimento iniziale attraverso una successiva interlocuzione. Anche se attivatosi in un secondo momento, avrebbe potuto comunque rimediare all’assenza iniziale di coinvolgimento dovuta all’urgenza di eseguire un provvedimento di arresto su mandato della Corte penale internazionale e su segnalazione di Interpol.

In altri termini, sostenere che la legge 237 del 2012 richieda un’interazione preliminare e indispensabile tra il Ministro della Giustizia e il Procuratore Generale affinché la polizia possa intervenire, porta a risultati incompatibili con lo scopo della legge stessa.

Questa normativa stabilisce infatti che la cooperazione con la Corte penale internazionale da parte dell’Italia è un obbligo (art. 1), in conformità con lo Statuto (art. 86 St.). Quest’ultimo prevede espressamente l’ipotesi di trasmissione del mandato d’arresto emesso dalla Corte tramite Interpol (art. 87 comma 1 lett. b), come avvenuto nel caso specifico. Grazie a una segnalazione di questo tipo, Almasri è stato arrestato dalla Digos di Torino, così come accaduto poco tempo prima con Abedini. Guardando oltre, è importante notare che neanche la convenzione tra Italia e Stati Uniti specifica esattamente quando e come la polizia possa agire con urgenza per fermare una persona ricercata.

La legge del 16 marzo 2009, n. 25, che ratifica l’accordo sulla mutua assistenza giudiziaria tra Europa e USA del 2003, non affronta questo tema. Tuttavia, nessuno ha messo in dubbio la possibilità che la polizia potesse agire di propria iniziativa, secondo l’art. 716 c.p.p., posto che, come prevede l’art. 696 c.p.p., nel campo della cooperazione giudiziaria si applica il codice, a meno che le disposizioni delle convenzioni internazionali in vigore e le norme di diritto internazionale generale non dispongano diversamente.

Questa espressione va interpretata, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’Appello di Roma, come volta a escludere la normativa generale non in caso di un semplice silenzio, ma in presenza di una disposizione diversa e incompatibile con quella del codice. In questo senso, si osserva che la legge 237 del 2012 non regola diversamente, rispetto all’art. 716 c.p.p., l’arresto d’urgenza da parte della polizia: semplicemente, non ne tratta affatto, quindi si applica la norma del codice.

L’adozione di una diversa interpretazione rispetto a quella proposta appare discutibile dal punto di vista giuridico, tanto che autorevoli studiosi hanno parlato di “eclissi del diritto”.

Questa scelta pone l’Italia, che ha avuto un ruolo chiave nella creazione della Corte penale internazionale, in una posizione delicata rispetto agli altri 124 Paesi membri del sistema della CPI, così come nei confronti dell’ONU. Infatti, il Consiglio di Sicurezza ha conferito giurisdizione alla Corte in relazione alla situazione in Libia già nel 2011. Inoltre, la posizione italiana è critica anche rispetto all’Unione Europea, che ha sempre sostenuto la Corte dell’Aja come un pilastro della sua politica. Infine, la decisione è problematica in relazione agli obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione internazionale contro la tortura, reato di cui Almasri è accusato. La Convenzione richiede agli Stati contraenti di dotarsi degli strumenti giuridici necessari per trattenere chi è accusato di tale reato e garantirne la presenza. Questo a prescindere da quanto affermato dagli organi della CPI, che indicano che le autorità italiane competenti, incluso il Ministro della giustizia, erano state informate tempestivamente.